Oggi, se proviamo a impostare una ricerca bibliografica utilizzando l’acronimo MOOCs come parola chiave, rischiamo probabilmente di ottenere un numero di occorrenze enorme. Da che cosa nascono tanto interesse e una così ampia attività pubblicistica su un tema apparentemente così specifico?
Fino a pochi anni fa, nessuno tra tutti coloro che si occupavano di e-learning a un certo livello utilizzava l’acronimo MOOCs: il neologismo significa letteralmente Massive Open Online Courses, e il primo a utilizzarlo in modo circostanziato pare sia stato David Cormier nel 2008. Cormier – che è un esperto di comunicazione e innovazione in rete – stava progettando in quel momento per una celebre università canadese (all’avanguardia nelle sperimentazioni sull’Open & Distributed Learning) un corso dal titolo Connectivism and Connective Knowledge, insieme ad alcuni dei maggiori teorici di quella particolare declinazione dell’approccio costruttivista all’educazione in Rete che va sotto il nome di connettivismo, e in particolare George Siemens e Stephen Downes. Il corso era rivolto a un numero ristretto di studenti paganti, a cui era garantito un supporto tutoriale diretto, ma fu aperto anche ad alcune migliaia di partecipanti esterni, che avrebbero potuto (senza alcuna garanzia di essere supportati in modo diretto) accedere ai materiali a disposizione, tipicamente attraverso feed RSS, e utilizzare un set di strumenti ricollegabili al corso stesso, in particolare spazi di discussione su una piattaforma Moodle, blog, un ambiente Second Life e una chat evoluta.
Il modello originario, come si può facilmente osservare, è ben definito sotto vari aspetti. Prima di tutto, indeed, si tratta dello sviluppo operativo di un framework metodologico-didattico molto preciso, che recupera una lunga tradizione di sperimentazioni di tipo attivista ben nota in ambito canadese (e in altre aree del mondo anglosassone, anche se in misura minore negli USA). In seconda istanza si configura come un modello organizzativo in grado di rispondere alle istanze di coloro che, pur interessati agli argomenti affrontati (magari in una prospettiva che richiama lo scenario dell’apprendimento continuo degli adulti) non hanno in ogni caso né l’intenzione né la necessità di iscriversi formalmente ad una università per conseguire un titolo o una certificazione.
Cormier è molto chiaro su questi aspetti: ci tiene a evidenziare che un MOOC è prima di tutto un corso, per poi specificare che è open, partecipatory, distributed e life-long networked. Non solo: appoggiato da esperti come Siemens e Downes, che si sono sempre occupati di apprendimento collaborativo e della dimensione sociale dell’apprendimento, sostiene che i MOOCs sono anche un modo per collaborare («a way to connect and collaborate») e una strategia di coinvolgimento nel processo educativo («engaging in the learning process»). Concetti ribaditi in vari contributi correlati, e sotto molti aspetti già anticipati nella letteratura specialistica sull’approccio connettivista (Siemens 2004; Downes 2007). Questo significa, nella sostanza, che i MOOCs non sono altro che l’ultimo anello di una catena evolutiva, in cui non è difficile riconoscere la radicata tradizione universitaria canadese rispetto all’e-learning come opzione essenziale per la gestione di percorsi di apprendimento partecipati e allo stesso tempo come prospettiva per l’educazione continua, ma anche antenati nobili come l’approccio flessibile tipico delle Open University e altre interpretazioni del concetto di openness riferito sia ai percorsi che ai contenuti (Yuan, 2013). Con in più una marcata connotazione organizzativa che ne rappresenta paradossalmente sia il punto di forza che quello di debolezza.
Quello che ha decretato il repentino successo della sigla MOOCs e l’esplosione globale del fenomeno non è stato, indeed, l’approccio educativo connettivista reso esplicito nei primi corsi distribuiti grazie alle ricerche e attraverso le istituzioni canadesi: è stata piuttosto l’idea che i MOOCs potessero rappresentare per le università un’interessante opportunità sia per tesaurizzare la massa di materiali e risorse ormai nativamente digitali che i docenti producevano, sia per allargare (e di molto) il bacino dei potenziali utenti, inseguendo da un lato, pragmaticamente, una sorta di ipotesi di branding morbido (distribuendo corsi ad accesso libero rafforzo la mia immagine, then…), giocando dall’altro, più o meno consapevolmente, sul mito della globalizzazione della conoscenza che periodicamente riemerge sia quando si discute del significato di Internet sia quando si ragiona sull’impatto dell’e-learning in tal senso. Su questa interpretazione, per così dire, alternativa, ha sicuramente influito in maniera decisiva l’approccio delle università statunitensi, che in alcuni casi avevano cominciato a distribuire corsi online ad accesso libero ben prima che i canadesi cominciassero a parlare esplicitamente di MOOCs.
Il punto di riferimento in tal senso è rappresentato dal progetto Open Courseware del MIT di Boston, che ha cominciato a prendere forma nel 1999 per diventare operativo tra il 2001 e il 2002. Come affermano loro stessi: «the idea is simple: to publish all of our course materials online and make them widely available to everyone.». In effetti, sembra che si tratti di qualcosa di simile ai MOOCs, se non fosse per una sostanziale differenza: se è vero che in entrambi i casi si tratta di corsi aperti e liberamente accessibili, va detto che nel modello americano manca tendenzialmente la componente partecipativa/connettiva che invece caratterizza in modo netto le esperienze canadesi.
In estrema sintesi, i MOOC originari sono percorsi di apprendimento progettati esplicitamente per coinvolgere i partecipanti e stimolarli a confrontarsi e connettersi, gli Open Courseware sono invece soprattutto repository di risorse (sia pure ben strutturate sul piano didattico) recuperate digitalizzando i corsi che si svolgono all’interno del campus (spesso basati anche su lezioni tradizionali) in modo che possano risultare globalmente accessibili. Di fatto, la quasi totalità delle iniziative analoghe che col tempo hanno preso forma negli USA (da Coursera a edX, a Udacity, ai repository aperti di università come Berkeley, Yale o molte altre) ripropone con poche varianti il modello OC del MIT, contando sull’autorevolezza indiscussa delle fonti (e sul brand istituzionale) come leva di successo, senza dimenticare il ritorno di immagine e di indotto che una simile prospettiva avrebbe potuto garantire alle stesse università (Walsh, 2011).
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